Sulla baia di San Francisco sorge Palo Alto, il cui nome deriva dal nomignolo (el palo alto) con cui i conquistadores indicavano la straordinaria sequoia che face loro da punto di riferimento nelle prime esplorazioni; sopra i tumuli della tribù dei nativi Olohe, in una zona di montagne e querceti dal clima mediterraneo, quasi duecento anni dopo moriva il trentasettenne Evan Tanner: è il 5 agosto 2008 e il corpo non sarà ritrovato prima di tre giorni.
L’8 agosto 2008 quando il mondo venne a conoscenza della tragedia furono in molti a speculare sulla morte dell’ex UFC middleweight champion e furono in molti a suggerire che dietro ci potesse essere un preciso intento suicida, nonostante l’ovvietà della nozione che nessuno sano di mente sceglierebbe di togliersi la vita perdendosi in una macchia prossima al deserto della California in agosto, quando le temperature arrivano a 40 gradi.
A cinque anni di distanza abbiamo la certezza che non è stato così, se non dovessero bastare le testimonianze dei suoi amici più stretti, quelli che allertò quando si rese conto di essere rimasto senza acqua e con la moto a secco, c’è un video di quei momenti che egli stesso girò con il cellulare dove spiegava chiaramente la situazione; eppure più che mai non è sbagliato dire che quella fine non l’avesse – se non cercata – messa in preventivo con una facilità sconcertante.
Non è semplice parlare di Evan Tanner prescindendo dalla sua morte, a cinque anni di distanza si ha come l’impressione che sia l’evento fondamentale per decifrarne la personalità ed è alla luce della sua ultima avventura che vanno rilette le fasi che ne hanno composto la vita e la carriera.
Sinteticamente si può dire che Tanner rientrasse in quella categoria di fighter che ‘combattevano quando le MMA ancora non si chiamavano MMA’, di cui fu uno dei primi campioni ed uno dei primi ambasciatori internazionali, avendo a tre anni dal suo esordio già difeso sei volte il titolo di campione del torneo UWSF e collezionato cinque vittorie nel prestigioso circuito giapponese del Pancrase, dove in quegli anni splendeva la stella del leggendario Bas Rutten.
La chiamata da parte della SEG, allora proprietaria dell’ UFC, arrivò quasi naturalmente a quel punto e l’invito era di andare a giocarsi il titolo dei massimi-leggeri con Tito Ortiz che anni prima aveva fallito l’assalto – subendo nel finale un ritorno prodigioso dopo aver dominato senza troppi patemi – contro quel Frank Shamrock che aveva illuminato gli stessi ring giapponesi dove Tanner si era fatto conoscere.
Dopo aver perso contro il futuro Hall of Famer che terrà a lungo la cintura ai propri fianchi comincia l’era Zuffa, inaugurata ufficialmente con l’evento 33 e Tanner è uno degli alfieri del passaggio dall’interno dell’ottagono, mentre i fratelli Fertitta lo consumano negli studi legali di Las Vegas.
Dopo una serie di vittorie e una sconfitta per mano di Rich Franklin, in cui capisce di non poter più sopportare lo strapotere fisico dei massimi-leggeri, la carriera in UFC decolla col passaggio alla categoria inferiore, dove sulla propria strada trova subito un ex compagno di allenamento con cui i rapporti non erano affatto buoni: Phil Baroni viene spazzato via una volta (UFC 45) e addomesticato, subito dopo (UFC 48), una seconda in una delle ‘rivalità’ che oggi si ricorda con più nostalgia, alla luce delle loro carriere, del carisma di entrambi e del fatto che col tempo i due si sarebbero riavvicinati.
Siamo nel 2004 e Tanner conquista una title shot sottomettendo via triangolo un giovanissimo Robbie Lawler nell’evento, il cinquantesimo, che vede un altro giovane prospetto – questa volta canadese – guadagnare la prima locandina promozionale in quello che sarà il primo tentativo, poi perfezionato, per conquistare il titolo dei welter contro Matt Hughes, leggenda delle MMA e UFC Hall of Famer che quella cintura l’aveva difesa cinque volte prima di farsela strappare da BJ Penn.
La narrazione a questo punto si fa serrata, passano tre mesi per l’evento 51 e basta meno di un round per contenere gli assalti dello striker David Terrel, prendere il controllo del match e chiuderlo per TKO via ground and pound; è il 5 febbraio 2005 ed Evan Tanner è l’indiscusso Campione dei pesi medi UFC.
Il suo regno durerà soli quattro mesi: la sua nemesi nella categoria superiore, Rich Franklin, scenderà di peso e lo affronterà il 4 giugno, all’UFC 53, spogliandolo della cintura; da quel momento rientrerà nell’ottagono solo quattro volte in tre anni, aggiudicandosi una vittoria e subendo tre sconfitte, l’ultima delle quali gli costerà il benservito da parte della dirigenza UFC.
A questo punto la cronaca sportiva si riallaccia a quella personale, dove il declino di un uomo roso dal demone dell’alcol infetta e disgrega il lavoro di tanti anni di sacrifici nello stesso modo, lentamente ma con la stessa regolarità con cui era solito tracannare una dozzina di shoot di tequila di seguito, come fosse acqua.
Perché nonostante l’eccellenza raggiunta tra le maglie della rete dell’ottagono Tanner rimaneva l’uomo estremamente insicuro che era sempre stato e con gli anni la mancanza di obiettivi a lungo termine l’aveva turbato; i suoi viaggi solitari zaino in spalla per il Giappone all’indomani di un incontro, la sua continua ricerca di un lavoro o perfino il tentativo di rentrée nel 2008 erano il suo modo di esorcizzare questa paura e di colmare il vuoto esistenziale che viveva; un’alternativa in cui fuggire dalla realtà a cui tutti, prima o poi, devono conformarsi per non essere respinti come disadattati.
Il suo sincero desiderio di cimentarsi in uno degli sport più violenti per dimostrare a sé stesso di essere capace di imporre la propria volontà su un avversario che voleva fare lo stesso con lui faceva il paio con l’urgenza di confrontare anche le sue idee con quante più persone possibili, cercando conferme o confutazioni alle sue idee.
Perché di idee e progetti Tanner ne aveva tanti e, a detta di tutti quelli che l’hanno conosciuto e frequentato, la sua mente era continuamente al lavoro: dotato di una profondità introspettiva fuori dal comune non riusciva a non rimuginare su qualsiasi cosa, a chiedersene sempre il perché, coinvolgendo chi gli era vicino fino al punto di ricevere in regalo da un compagno di allenamento l’invito a mettere nero su bianco ogni pensiero insieme a una manciata di penne e una pila di quaderni che sarebbero stati riempiti molto in fretta.
Presto li avrebbe sostituiti con un più pratico pc portatile, che gli avrebbe spalancato le porte della Rete e la possibilità di comunicare con tutte gli interlocutori di cui aveva bisogno attraverso il suo blog, vera e propria cassa di risonanza del Tanner-pensiero e contenitore ultimo dei tasselli della sua personalità piena di contrasti.
Il logo era lo stesso motto con cui aveva deciso di sostituire le sponsorizzazioni nei suoi ultimi incontri, ‘Believe in the power of one’, personale rilettura della teoria pseudoscientifica – e superata – della ‘centesima scimmia’, secondo cui il particolare comportamento virtuoso, dimostratosi evolutivamente vincente, di un singolo individuo avrebbe spinto, in una sorta di coscienza collettiva, tutti gli altri esemplari della stessa specie verso lo stesso comportamento.
Evan Tanner quindi era l’uomo ispirato che cercava di realizzare una sorta di centro di recupero per ragazzi problematici attraverso lo studio e la disciplina delle MMA – progetto fallito per non precisati motivi di carattere interpersonale – ed egli stesso ispiratore del mondo, attraverso l’esempio, verso l’auto miglioramento; ma c’era anche l’uomo distrutto che, dopo aver trascorso ore con un secchio a travasare acqua, si siede sconsolato sulla riva e documenta l’affondamento a pochi metri dalla riva della barca con cui progettava di girare il mondo in un’impietosa sequenza di foto che sarà tra gli ultimi contributi pubblicati sul suo blog.
In mezzo Evan Tanner, l’uomo che scavando fino all’essenza delle cose cercava di trovare una sicurezza che forse non osava cercare dentro di sé, forse per paura di raggiungere i propri limiti e di doversi, per forza di cose, fermare.
Non si è mai fermato, Evan Tanner, nemmeno quando all’annuncio della sua spedizione nel deserto della California molte voci, compresi i suoi fan dal blog, l’avevano avvertito delle difficoltà che un progetto del genere avrebbero comportato in quella stagione. L’ultimo aggiornamento è, ironia della sorte, una rassicurazione per coloro che si erano mostrati preoccupati dalla sua volontà di partire con un equipaggiamento volutamente ridotto al minimo per creare una situazione di essenzialità di cui un fantomatico tesoro sepolto era solo la stravagante metafora ufficiale.
Dicono che stesse vivendo un periodo di sobrietà particolarmente lungo e felice, sicuramente la sua ultima avventura testimonia che i dissidi interiori erano ancora lì a perseguitarlo come immutata era l’urgenza di ricerca a premere per superare i mezzi fin lì utilizzati per placarla.
Si può riassumere la parabola della sua vita nel bisogno di cercare, in quella particolare ricerca che rende i maschi uomini e che per tanti non è automatico culmine di un percorso naturale che si è compiuto senza scossoni eccessivi: come nel caso di Evan Tanner spesso diventa una battaglia contro sé stessi e contro il tempo, perché più tardi la si vince e meno tempo ci sarà per goderne i frutti.
Una battaglia che molti hanno perso, stanno perdendo e continueranno a perdere, senza l’onore di averla combattuta fino in fondo come lui, a cui non può essere rivolto alcun biasimo, se non il rammarico di essersi addentrato in quel maledetto deserto con l’intento di fare, letteralmente, un ultimo tentativo di trovare conferme ai suoi dubbi, sé stesso o una definitiva fuga da quel mondo fatto di un’esistenza per certi versi ‘banale’ di cui forse si sentiva sempre più ai margini.